Anche Lineker si può sbagliare
I luoghi comuni sono fatti per essere smentiti, ma anche no. Noi italiani ci teniamo con immenso piacere tutti gli stereotipi che la Bild, ormai neanche più tanto originale, pesca ogni volta che affrontiamo la Germania, ma in cambio non transigiamo su una cosa: a calcio, cascasse il mondo (o anche solo l’Europa), vinciamo noi. E costringiamo Gary Lineker a correggere la sua famosa frase: "Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti e, alla fine, vincono i tedeschi". Quando non giocano contro l'Italia, però.
Sarò franco: stavolta non me l'aspettavo. Credevo che la legge dei grandi numeri prima o poi avrebbe prevalso, a maggior ragione nella serata di Varsavia, dove l'istantanea della vigilia raffigurava da un lato una Nazionale più determinata che talentuosa, oltre che afflitta dal problema del gol, e dall’altra una squadra schiacciasassi, ambiziosa, formata da giovani in ascesa, pronti a toccare l’apogeo. Credevo che i due giorni in meno di riposo avrebbero presto o tardi presentato il conto, anche perché mentre Prandelli aveva confermato 10/11, Loew ritirava fuori dalla bambagia Podolski e Gomez (ma non Mueller!), dopo averli preservati contro la Grecia in quella che a posteriori appare come una sfacciata e incauta manifestazione di forza. Invece la Germania è apparsa la copia stordita di sé stessa, brancolante nel buio in difesa, smarrita in avanti, e quel che è peggio poco combattiva nel suo insieme.
La partita l’abbiamo vista tutti: dell’Italia vorrei però sottolineare la compattezza della sua ideale “colonna vertebrale”. Buffon è stato decisivo sin dall’inizio, e per 90’ ha dato una sicurezza enorme al resto della squadra, attento sui palloni alti e reattivo sulle conclusioni in porta. La coppia difensiva centrale Bonucci-Barzagli ne ha giovato a piene mani, ripetendo contro un avversario più probante la prova ermetica vista con l’Inghilterra, mentre a centrocampo Andrea Pirlo è stato dilagante, molto più positivo rispetto a domenica, quando prima del proverbiale “cucchiaio” aveva offerto una prova sul filo della sufficienza. Significativo e non casuale: la struttura portante della Nazionale prandelliana attinge in abbondanza dalla Juventus campione d’Italia. Piaccia o no, è così da sempre: quando c’è una grande Nazionale (1982, 2006, 2012, per tacere degli anni’30) è perché alla base c’è una grande Juventus.
In attacco si è invece finalmente materializzata l’utopia rincorsa da Cesare Prandelli da nove mesi a questa parte, da quando cioè Giuseppe Rossi, rompendosi il ginocchio, fece capire al Ct che l’unica via percorribile era la coppia Cassano-Balotelli. Un azzardo, dove il confine tra trionfo e disastro era così sottile da non essere nemmeno visibile, e che a Varsavia ha fatto la sua scelta. L’azione del primo gol ha un che di epifanico, nel senso joyciano del termine: il palleggio limpido di Cassano, lo stacco di Balotelli, l’esultanza di SuperMario, la certezza che da lì in poi tutto fosse più chiaro. Più chiaro di così: il tiro del 2-0 di Balotelli poteva essere tamponato da un panzer tedesco, poteva svirgolare penosamente in fallo laterale, è finito diretto nel sette, e filava fortissimo pure nel replay.
Vorrei scrivere di più, ma no, non è ancora il momento. Buffon e Pirlo, gli eroi di Berlino, fanno ora da pompieri, alla faccia di chi dice che troppi trionfi riempiono la pancia. Loro per primi sanno la differenza tra “è stato bello” ed “è stato bello lo stesso”. E non si tratta solo di due parole in più.